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Tu non ucciderai

Il quinto comandamento: “Tu non ucciderai” respinge senza appello ogni comportamento che sfoci nell’uccisione e nella violenza commessa nei confronti di un altro uomo. Uomo tra gli uomini, Gesù Cristo, con il suo mistero di morte e di resurrezione, ha illuminato maggiormente il senso di questo comandamento insegnandoci che l’efferatezza del male si compie prima di tutto nell’interiorità della coscienza e che le intenzioni stesse sono imputabili della gravità del peccato ancor prima di essere tradotte in azioni malvagie. In ogni caso l’appello alla coscienza degli individui e dei popoli (non solo cristiani) è insito nell’offerta dei comandamenti. Nell’intimo della coscienza non è mai riscontrabile alcuna ragione che possa oggettivamente giustificare la soppressione della vita.
Nonostante ciò, atti di disumana violenza e numerosi delitti vengono continuamente consumati ovunque per disparate incongrue ragioni e assurdi pretesti, e manifestano che è ancora lungo il cammino da compiere perché tutti riconoscano la sacralità e l’intangibilità della vita umana.
A distanza di non molto tempo dall’ultimo, un altro delitto si è consumato nel territorio di Regalbuto. Questo ci angoscia e ci allarma, e ci fa pensare che anche tra noi si è talvolta sordi all’appello della coscienza e dei dettati sovrani del Signore. Anche la ragione più forte che potrebbe spingere alla collera non è mai sufficiente perché essa sfoci nella violenza e nella morte. Anzi, mi si lasci dire, essa rimane sempre banale dinanzi alla gravità dell’omicidio. L’ira è la soppressione della coscienza ed è obbedienza dell’istinto. Qualcuno ha scritto: “Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido” espressione questa che fa accapponare la pelle se si pensa che in ogni tempo e luogo la morte per mano di incoscienti è sempre in agguato.
Quanto dolore ha causato in questi giorni l’omicidio del nostro fratello Domenico!
E quanto più dolore porta il sapere che in mezzo a noi c’è un fratello senza nome che lo ha voluto!
Non mostrare rispetto del valore della vita degli altri implica il disprezzo della propria vita stessa. È impossibile uccidere un altro essere umano se si ha la coscienza di essere umano come colui cui si sottrae il dono più grande che abbiamo. Se ci si rendesse conto di questo, non si giungerebbe mai alla soglia di una simile esecrabile azione.
La soppressione della coscienza è all’origine della soppressione della vita. Chi entra in una spirale di violenza dove il rischio mortale è una possibilità quotidiana perde la minima consapevolezza della grandezza e della bellezza della vita, della sua precarietà e della sua unicità. Si diventa asserviti a logiche disumane, fino al punto di compiere azioni che neanche gli animali più feroci mettono in atto.
Cosa mai può spingere ad uccidere un essere umano? La genericità di questa domanda si fa pressante e urgente se ci chiediamo come mai nella nostra società contemporanea tanto attenta ai diritti delle persone, compresa la nostra Regalbuto, possa ancora farsi spazio, e talvolta con grande facilità, la prevaricazione sull’altro fino all’estremo? Per quanto mi sforzi, riflettendo, di scorgere ragioni plausibili, non mi è possibile trovarne. Piuttosto mi accorgo che, se da una parte si è divenuti molto avvertenti dei diritti e delle libertà individuali, dall’altra si è offuscato il senso del dovere comune. A causa di questo l’altro non è più considerato un essere come me stesso, tanto meno un fratello. Il diritto si è via via confuso con l’esercizio smodato di un potere cieco, attento cioè al proprio profitto tanto da far pensare di poter disporre della vita altrui alla pari di un qualsiasi prodotto. Significativamente in questo può giocare una parte determinante l’idea stessa che sia possibile sopprimere la vita di un altro, ancor prima che nasca, attraverso l’aborto, che ormai costituisce l’orizzonte di misura della nostra realtà quotidiana, tanto da poterla manipolare secondo il proprio progetto.  Se violenza è violare il diritto di un altro penetrando nello spazio più sacro della dignità e della libertà della persona, mi accorgo anche che, senza rendersene conto, essa si è fatta breccia dentro le stesse mura della famiglia in tante forme.
Talvolta infatti si cresce in contesti familiari in cui si coltiva la violenza come ragione ultima della vita fomentando l’odio per il nemico, e intendendo per questi, colui che ostacola il raggiungimento dei propri progetti di espansione e di dominio. Si convive cioè pacificamente con i principi di una sottocultura strisciante che attraversa ampi strati della popolazione e che giustifica gli atti vendicativi, violenti, umilianti della dignità della persona, fino allo stesso omicidio. Altre volte ancora, la violenza è divenuta oggetto di spettacolo da esserne diventati indifferenti. Non è più raro vederla affacciarsi nella vita di ogni giorno attraverso il carattere spesso brutale di programmi appositamente confezionati da televisione e cinematografia. È stato detto, in base a ricerche credibili della scienza statistica, che un bambino munito di telecomando, alternando tra un canale e l’altro della televisione, in un’ora può assistere a circa 28 omicidi. In simili contesti narrativi, la vita umana viene presentata senza alcun valore e l’atto omicida viene addirittura presentato come atto eroico. La violenza è così confusa con l’esercizio del potere, fa sentire pari a un “dio”. Inquieta non poco in questo senso notare l’esistenza di un filone narrativo della cinematografia che ha eretto tipologie e mentalità di personaggi noti della criminalità organizzata a eroi mediatici. Non ultimo, credo possa giocare un ruolo determinante anche il fatto che molti delitti restino impuniti e che il sistema giudiziario correntemente non abbia ancora bene focalizzato con rigore il senso e il modo del recupero dei colpevoli. Piuttosto l’opinione comune sembra essere influenzata dalla nozione che istituti giuridici come il patteggiamento, la buona condotta, gli indulti e altre riduzioni della pena in ultima analisi riducano il valore della colpa diminuendone anche la responsabilità individuale e sociale.

Resta perciò aperta, insoluta e cocente la nostra domanda. Per quanto sia desiderabile cercare motivazioni, non sarà mai possibile trovarne una che possa spiegare sufficientemente cosa possa aver spinto uno di noi, te fratello omicida, a compiere un gesto del genere. Sai bene infatti che, anche se vi fosse una ragione, essa sarebbe pur sempre discrepante e sproporzionata dinanzi all’esito della perdita di una vita. Per questo faccio appello alla tua coscienza!  Sono certo che nel profondo del tuo cuore, quando sei avvolto dal silenzio senti una qualche disapprovazione del gesto che hai compiuto. Non dare ascolto a chi ti giustifica, a chi potrebbe arrivare a dirti: “Hai fatto bene”. Perché è una voce di menzogna e di falsità. Dai ascolto al tuo cuore se ancora riesci a sentire quella voce della coscienza dov’è inciso il comandamento di Dio: “tu non ucciderai”. Veglierò il tuo ritorno nella preghiera e insieme a me pregheranno tanti. All’impossibilità di avere restituita la vita di Domenico spero si sostituisca la possibilità del tuo ravvedimento e della nuova luce che vorrai seguire perché anche la tua vita non sia persa. Anche a te infatti la tua stessa vita è stata tolta dal tuo gesto.

Il vero coraggio di un uomo si misura dall’amore, non dall’odio. Alla condanna senza condizioni che tutti condividiamo ed esprimiamo senza alcuna reticenza del gesto con cui è stato tolto alla stima e all’affetto della comunità paesana e della sua stessa famiglia, il caro Domenico, non segua adesso il proposito della rivalsa. Resteremmo anche noi vittime di questo brutale omicidio se il nostro cuore si lasciasse avvolgere dalla fuliggine del risentimento e non riuscissimo ad alzarci con un rinnovato impegno di restituire alla vita della comunità il senso e la misura della sua dignità. Ci aiuta in questo principalmente l’insegnamento e lo stesso esempio di Gesù  che ci ha mostrato che l’amore dei nemici è l’unico modo dell’amore di Dio. A voi familiari di Domenico consegno tutto intero questo amore, nel quale adesso il vostro congiunto riposa. Lo faccio standovi vicino con la preghiera e con l’affetto. Lasciate che sia la grazia di Dio a sostenervi in questo momento di sofferenza e non l’intima esacerbante amarezza della comprensibile rabbia che certamente percepite; non lasciatevi avvelenare da desideri di vendetta e affidate alla giustizia il corso del futuro.

La nostra comunità paesana nella maggioranza dei suoi componenti si professa cristiana. Ciò vuol dire riconoscere Gesù come Signore e Maestro della nostra vita. Il pulpito dal quale ci ha confermato il senso di tutti i suoi insegnamenti è la croce. Mentre perdeva la sua vita, acquistava la nostra. Solo così ha senso l’appello ad amarci oltre ogni costo, a prenderci cura gli uni degli altri, a perdonare: il sangue di un’altra vittima dell’assurdità delle passioni umane sia, come quello di Abele e di Cristo, il duro prezzo pagato per la comune riconciliazione e un rinnovamento evangelico. A ciascuno il compito di costruire la nostra casa comune, la città e la famiglia, su questo fondamento!

P.Alessandro

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